Da Dagospia (9-12-05) LA CADUTA DEI FURBETTI DEL BOTTEGHINO (D’ALEMA & CONSORTE ADDIO)
LA CADUTA DEI FURBETTI DEL BOTTEGHINO (D’ALEMA & CONSORTE ADDIO) COSI’ L’ASSALTO AL CIELO FINISCE NEL GIRONE DEI BILLÉ, DEI RICUCCI, DEI FIORANI IN FINANZA, BIANCA LAICA O ROSSA, SE NON SEI DEL GIRO GROSSO, È SEMPRE COSÌ 1 - D’ALEMA, UN ALTRO OUTSIDER IN TRAPPOLA Giuliano Ferrara per “Il Foglio” La partita è stata bruciante, rapida, brutale, e a quanto pare l’hanno vinto loro, il primo tempo che forse è anche l’ultimo. Loro sono la Rcs, cioè la galassia nordista proprietaria del Corriere e la direzione del Corriere che compie giusto un anno, i trecento giorni di Paolo Mieli. Antonio Fazio si è salvato provvisoriamente, perché quello del governatore è un potere irresponsabile, lo vollero così i progenitori dei nuovi Cuccia di via Solferino: non si può espugnare una casamatta, un potere neutro che ha sempre fedelmente servito la causa del grande capitalismo, ieri industriacentrico oggi bancocentrico, finita in mano a un cattolico ciociaro, piuttosto la si lascia lì, ai margini, sotto assedio perenne come la Fortezza Bastiani di Buzzati. (Giulianone Ferrara-U.Pizzi) Ma per il resto, per Consorte e D’Alema e altri outsider del potere (ci vanno di mezzo anche il filosofico Bersani, l’ottimo e candido Fassino), siamo al traguardo o dalle sue parti. Mentre fioccavano gli avvisi di garanzia milanesi per il banchiere del popolo di sinistra, il duro di via Stalingrado esaltato dall’Unità quando era un supervincente, l’Unità pubblicava pettegolezzi dalemiani sullo stipendio del direttore del Corriere, risposta letteralmente povera alla grande offensiva dei letteralmente ricchi. Quando sfuma l’Opa, torna la boria. Ma la boria rende meno dell’Opa. Strano. In politica D’Alema non sarebbe un parvenu, tutt’altro, vecchia Repubblica e vecchio Pci. Ma in finanza, l’altra faccia della politica, il capo vero della sinistra italiana è condannato a convivere con situazioni di "gregantismo", micro e macro. (Gregantismo: dal nome onorato di Primo Greganti, colui che seppe opporre il gran rifiuto alle domande dei pm che sono all’origine di tutta la storia, anche di quella in corso, e la suggellano nella nuova alleanza media & procure che si abbatte come nemesi su vecchi amici, reperti delle inchieste anni Novanta, nuovi nemici.) In finanza, bianca laica o rossa, se non sei del giro grosso, è sempre così. Ti esponi, fai la faccia allegra e feroce, sei a un passo dalla meta, ti allei anche con il diavolo, ti incunei nelle galassie come una nuova stella che arde dalla voglia di ardere, selezioni i buoni e i cattivi dell’altra parte, blandisci e minacci con la cosiddetta forza del voto popolare, con la prospettiva ipotetica ma ravvicinata dell’insediamento al governo, e poi, tac, qualcuno ti intercetta duro, i giornali che contano si unificano, quello che si sente aggredito reagisce con l’orgoglio dei forti (sempre temibile nel suo guanto elegante di seta), e quell’altro (Repubblica) chiede una strana tessera n° 1 di uno strano partito che ti esclude in casa tua, e picchia, gli altri (Stampa, Sole 24 Ore) si muovono avidi e professionalmente impeccabili tra le carte che definiscono i contorni dell’accusa ai tuoi vecchi amici e compagni, cooperatori e banchieri, conti personali, società che insospettiscono il pm e la Consob, tra concerti, concertini e prime della Scala, parole tenorili e soffuse come aggiotaggio, insider trading, addirittura "arricchimenti personali", e c’è chi ti porta la guerra moralista nel tuo popolo, c’è anche lui, credevi di avere un Travaglio in casa all’Unità e te lo ritrovi in casa del nemico, i suoi bananas sono per Anna La Rosa ma i suoi occhiuti mattinali passano da MicroMega al Corriere (perfino al Foglio del lunedì, così, per documentazione), e Rizzoli gli dà giù con l’Inciucio. E arrivano gli olandesi, magari domani i baschi di Bilbao o chissà chi. (Anna La Rosa-U.Pizzi) Così si finisce nel girone dei Billé, dei Ricucci, dei Fiorani e degli altri intercettati e avvisati, un purgatorio con un macigno in testa che preme per l’inferno, mentre Prodi e Rutelli e Veltroni e la tessera n°1 - divisi su tutto - ora guardano stupiti come transita la gloria del mondo. D’Alema, che piace tanto perché è un uomo di mondo, appunto, ora è costretto all’inginocchiatoio dalla grande chiesa dei denari antichi e veri, il suo apparato ecclesiastico di funzionari e tesserati è assediato da un laicato prestigioso, con editori raffinati biblisti, cronisti e opinionisti che sentono già il fiato grosso della preda. Se D’Alema avesse capito quel che aveva capito Craxi, o meglio se avesse avuto il coraggio di riconoscere quel che aveva capito ma per tattica autolesionista si ostinava a negare, non si troverebbe oggi nelle peste, in compagnia della compagnia di Consorte. E che cosa aveva capito Craxi? Che la legge del potere in Italia è una sola: soldi e politica devono restare separati, al contrario di quanto avviene nelle vere democrazie all’americana, perché così, nel confronto, diciamo, i soldi sapranno sempre come difendersi e la politica sarà costretta alle sue dimensioni e ambizioni di forza importante ma minore. A far saltare questa legge Craxi ci provò, e lo fulminarono con tutta una Repubblica, ci si è provato Berlusconi alla sua maniera, e anche lui è costretto a difendersi dalla caccia grossa. Non è che adesso i soldi e le loro sentinelle di procura e di carta, di poteri neutri da Bruxelles alla Consob, spalancano la porta a un D’Alema, con le sue sentinelle coop o finanziarie di varie latitudini, per dirgli cortesemente: onorevole, si accomodi. (Il Baffino D’Alema e il grissino fassino-U.Pizzi) IL CASO CONSORTE IMBARAZZA I DIRIGENTI DS Sergio Rizzo per il “Corriere della Sera” Alla conferenza programmatica dei Ds di Firenze, sponsorizzata dall’Unipol, l’assenza del presidente della compagnia Giovanni Consorte non era passata inosservata. E ieri «Europa», il quotidiano della Margherita, ha interpretato quell’assenza come un passo di una exit strategy «dal vicolo di appoggio cieco e incondizionato» nel quale si era infilato il gruppo dirigente dei Ds. Il cui presidente, Massimo D’Alema, sulla scalata alla Bnl ci aveva messo addirittura il timbro. Nell’intervista di agosto al Sole 24ore in cui bocciava la tesi dei due capitalismi, «uno buono, produttivo, l’altro degli speculatori legati al mondo politico», aveva sentenziato: «La sostanza dell’operazione Unipol-Bnl è chiara». Difficile dire se la exit strategy comprenda anche, come si comincia a mormorare negli ambienti delle coop, l’uscita di scena di Consorte. Chi lo conosce bene, come il senatore diessino Lanfranco Turci, non crede all’ipotesi che lui si possa fare da parte pur di salvare l’Opa sulla Bnl. «Mi sembra un evento non all’ordine del giorno». Non così Salvatore Biasco, per il quale «se risultasse dalle indagini che Consorte si è arricchito personalmente, pagherà personalmente e toccherà a un altro prendere il suo posto». (Gianpierino Fiorani-da Lapresse) Certamente quelle operazioni finanziarie «personali» fatte con la Banca popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani, sulle quali la Procura di Milano ora vuole vederci chiaro, rischiano di riaprire un fronte doloroso. Dice Turci, ex presidente di Legacoop: «Sono certo che sarà tutto chiarito e mi auguro che i sospetti svaniscano, nell’interesse del movimento cooperativo, che è parte della sinistra italiana. Ma se non fosse così, ci sarebbe un grave sconcerto». Lo sconcerto comunque si è fissato nelle facce dei senatori diessini che l’altro ieri, a palazzo Madama, si giravano fra le mani il giornale che riportava la storia dei conti di Consorte e Sacchetti alla Lodi. E si capisce perché: «L’idea che la sinistra, e le cooperative, avessero un codice genetico diverso è finita con Enrico Berlinguer», ammette Turci. Che tuttavia fa presente come «la polemica sul costo della politica» sia stata aperta proprio dal Ds, a dimostrazione che nella Quercia c’è «preoccupazione per il rischio di un eccesso di omologazione». Già. «Eccesso di omologazione». Di cui la vicenda Unipol, azienda plasmata da Consorte e Ivano Sacchetti, è forse l’emblema. Del resto, non si porta in pochi anni una compagnia come l’Unipol dal settimo al secondo posto nella classifica delle assicurazioni, dopo le Generali, per caso. E nemmeno per caso si arriva a scalare la Bnl, un tempo la banca del governo. Soprattutto adesso, in piena era berlusconiana, e senza l’ostilità del governo. Per arrivarci c’è voluta una lunga marcia, e spesso senza badare troppo a chi erano i «compagni» di strada. La scalata a Telecom Italia, benedetta da D’Alema. L’alleanza con Chicco Gnutti, già condannato per insider trading, e i suoi amici Fiorani, Stefano Ricucci, e Ubaldo Livolsi, consigliere di Fininvest e legato a Silvio Berlusconi. Roba da mettere, sì, in gravissima crisi, il principio della «diversità genetica». Ma anche in via Stalingrado, dov’è il quartier generale dell’Unipol, il fine evidentemente giustifica i mezzi. E non da oggi. Il vicepresidente della compagnia, Sacchetti, un giorno sentenziò durante una riunione dell’Ania: «La stagione del romanticismo finanziario è finita». Traduzione: le cooperative sono imprese come tutte le altre. Di conseguenza, i loro manager non sono diversi da quelli delle aziende private. Fra scalate e alleanze, Consorte è arrivato a collezionare ben nove incarichi, se si conta anche la poltrona di «socio» della Fondazione Cassa di risparmio di Bologna, il tempio della finanza bianca, dove ha un posto anche Romano Prodi. Sacchetti ne ha addirittura 12. Sia Consorte che Sacchetti, hanno poi ciascuno la propria società immobiliare privata. Quella di Consorte si chiama Maxwell, e il presidente di Unipol è in società con un certo Vincenzo Sportelli, giovane professionista che ha incarichi in molte società del gruppo Caltagirone. Di immobiliari Sacchetti ne ha due. Nella prima, la I.M., sono affluite durante il 2004 «disponibilità liquide» per un milione di euro. Niente di strano: grazie anche ai numerosi incarichi, Consorte e Sacchetti sono i manager più pagati del mondo cooperativo. Ma anche questo non fa che rendere più evidente lo sconcerto per la vicenda dei conti alla Lodi. (Cesaretto Salvi-U.Pizzi) Trapela, il disagio, e non potrebbe essere diversamente, anche dal commento apparentemente asettico di Cesare Salvi: «La politica deve tacere. Il sistema delle coop ha avuto antichi collegamenti con la sinistra, adesso è un settore imprenditoriale da cui la politica deve stare fuori. Mi auguro che vengano respinte tutte le strumentalizzazioni». Frase che ben individua il rischio che una storia del genere porta con sé a pochi mesi dalle elezioni. Autentica dinamite e con tanto di miccia accesa anche per la scalata dell’Unipol alla Bnl, fortemente sostenuta dai vertici della Quercia ma che a sinistra, e nei Ds, non tutti hanno ancora digerito. Non l’ha digerita, per motivi diversi, chi come Franco Bassanini e Giuliano Amato ha radici socialiste. Non l’ha digerita nemmeno la sinistra del partito, il cui leader Fabio Mussi evita di parlarne in pubblico, ma in privato confessa di «non essere affatto commosso» dall’idea che l’Unipol scali la Bnl. Ma la scalata non va giù neanche a molte cooperative, esacerbate dal sospetto che qualche manager possa aver speculato in proprio. E che si chiedono perché il movimento debba fare un investimento così costoso, e che probabilmente comporterà per alcune di loro l’impegno ad acquistare Aurora, in attività senza alcun collegamento con il sociale, ma che punta invece a creare il terzo polo finanziario del Paese. Sospettando una operazione di puro potere. Interrogativi a cui ha sollecitato una risposta, in un recente saggio, anche l’ex senatore Silvano Andriani, presidente di Montepaschi Vita e consigliere dell’Unipol. Ma una risposta ancora non c’è. Dagospia 09 Dicembre 200509/12/2005
Documento n.5374