Petizione sul sistema bancario italiano presentata a Bruxelles

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IL TESTO DELLA PETIZIONE SUL SISTEMA BANCARIO PRESENTATA A BRUXELLES Al Presidente della Commissione Petizioni presso il Parlamento Europeo On. Vitaliano Gemelli. PETIZIONE Nel corso degli ultimi anni sono stati statuiti tre principi fondamentali dalla Comunità Europea e dall'ordinamento italiano. Il primo principio è quello dell'effettiva e reale trasparenza delle condizioni contrattuali in campo creditizio perciò, se si conviene un certo tasso d'interesse a retribuzione di un credito, questa condizione deve essere rigorosamente ed effettivamente rispettata. Il secondo principio è la proibizione di logiche e pratiche di cartello tra le imprese, e quindi anche tra gli istituti esercitanti l'attività del credito. Il terzo principio, prescrizione più specifica dell'ordinamento italiano, è il rispetto del limite percentuale, stabilito dalla legge sull'usura, nell'applicazione degli interessi. In Italia le banche remunerano la loro attività attraverso la capitalizzazione trimestrale delle competenze, costituite da interessi e commissioni. La capitalizzazione trimestrale costituisce un espediente contabile per l'esercizio dell'anatocismo o, meglio, degli anatocismi. L'anatocismo, o usurae usurarum, è la riscossione dell'interesse sull'interesse. Si sottace troppo spesso, anche in sentenze di elevatissimo grado, che gli anatocismi comunemente praticati dal sistema, o cartello, bancario sono due: l'anatocismo esercitato dagli interessi e quello esercitato dalla commissione di massimo scoperto. La commissione di massimo scoperto è una percentuale fissa che si applica, generalmente quando lo sbilancio debitore, o scoperto, superi i dieci giorni consecutivi (festivi o non) ma il periodo può essere anche molto più breve, sulla punta massima del debito raggiunta indipendentemente dalla durata di tale punta. I due anatocismi agiscono in modo reciproco e sinergico moltiplicando vicendevolmente e progressivamente interessi e competenze. L'anatocismo degli interessi, infatti, moltiplica gli interessi e la commissione di massimo scoperto; l'anatocismo della commissione di massimo scoperto moltiplica la commissione di massimo scoperto e gli interessi. A ciò si aggiunga che nel trimestre sono addebitate sul conto corrente le spese postali, le spese di estratto conto, quelle connesse a singole operazioni, almeno una volta l'anno, quelle per la revisione dei fidi e altre commissioni connesse all'erogazione del credito: spese sulle quali si esercita l'effetto moltiplicatore dei meccanismi appena descritti. Il risultato di questo sistema è di rendere esorbitante il costo del credito e di tendere a perpetuare il debito del cliente, sia esso consumatore o impresa. La caratteristica di questo sistema è l'assenza di trasparenza giacché, anche a posteriori, è arduo risalire al tasso effettivo d'interesse praticato. In realtà l'anatocismo è vietato dall'art. 1283 del codice civile italiano il quale recita: <>. La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza 16 marzo 1999, n. 2374 e con sentenza 30 marzo 1999, n. 3096, invertendo il suo precedente orientamento, ha stabilito essere illegittima la pratica dell'anatocismo. Nel dispositivo delle sentenze si rileva, tra l'altro, che essa è frutto di un accordo di cartello, è contraria al principio della trasparenza delle clausole contrattuali e confligge con la legge sull'usura. Tale ultimo orientamento è stato ulteriormente confermato dalla sentenza della Corte di Cassazione dell'11 novembre 1999 n. 12507, con la quale infine si ordina alla corte d'appello di Milano di verificare <> nota come legge sull'usura. Il 24 luglio 1999 la stampa nazionale, in particolar modo la stampa specialistica, con grand'evidenza riportava la notizia che il 23 luglio 1999 il consiglio dei ministri approvava in via definitiva modifiche al decreto legislativo 1° Settembre 1993 n. 385, e successive modificazioni, noto come T.U. in materia bancaria. Il provvedimento, palesemente, intende mutare il senso e gli effetti di tutta la legislazione succedutasi dal 1990 e di vanificarne gli esiti giurisprudenziali faticosamente conseguiti a favore del contraente debole. Il decreto legislativo è stato pubblicato sulla G.U. del 4 ottobre 1999 n. 233, ed è ora noto come decreto legislativo 4 agosto 1999 n. 342. Il decreto legislativo 4 agosto 1999 n. 342, l'art. 25 L'art. 25 del provvedimento così recita: <<1. La rubrica dell'art. 120 T.U. è sostituita dalla seguente: "Decorrenza delle valute e modalità di calcolo degli interessi". 2. Dopo il comma uno dell'art. 120 T.U. è aggiunto il seguente: "2. Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione d'interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria, prevedendo in ogni caso che nelle operazioni in conto corrente sia assicurata nei confronti della clientela la stessa periodicità nel conteggio degli interessi sia debitori che creditori". 3. Le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma due, sono valide ed efficaci fino a tale data e, dopo di essa, debbono essere adeguate al disposto della menzionata delibera, che stabilirà altresì le modalità e i tempi dell'adeguamento. In difetto d'adeguamento, le clausole divengono inefficaci e l'inefficacia può essere fatta valere solo dal cliente>>. Questo provvedimento è discutibile sotto diversi aspetti. Un aspetto è quello della compatibilità con i principi sanciti dalla Costituzione e con quelli del Trattato che istituisce la Comunità europea. Altri aspetti ineriscono il contrasto con ulteriori norme dell'ordinamento interno. Per ciò che concerne la compatibilità con le norme incluse nel Trattato CE è utile andare alla sentenza 507/99 del Tribunale di Monza; agli opponenti che lamentavano che la previsione di clausole uniformi in fatto di anatocismo contrasterebbe con gli art. 85 ed 86 del Trattato istitutivo della CEE da parte dell'A.B.I. ed invocavano la rimessione degli atti alla Corte di Giustizia della Comunità Europea rispondeva il Tribunale citato che <>. Su quest'ultimo aspetto è intervenuta la Corte di Cassazione rilevando che le clausole contrattuali con le quali si è istituita la prassi dell'anatocismo siano frutto di un accordo di cartello; in particolare -si tenga a mente- la Corte di Cassazione ha escluso l'esistenza di usi normativi prevedenti l'anatocismo rilevando come <> (Cass, sentenza n. 2374, Il Foro it. 1999, p. 1161). Al contrario, <> (Cass, sentenza n. 2374). Siamo dunque, per l'aspetto appena evidenziato, al cospetto di un vero e proprio cartello bancario. Il comma 3 dell'art. 25 e le norme comunitarie sulla concorrenza Di conseguenza non appare azzardato valutare una norma che preveda che "Le clausole relative alla produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera di cui al comma due, sono valide ed efficaci fino a tale data" si ponga in palese contrasto con l'art. 85 del Trattato CEE e che quindi sia plausibile e doveroso richiedere la procedura d'infrazione per l'Italia davanti alla Corte di Giustizia della Comunità Europea. Il combinato disposto dagli artt. 3, lett. g, 5 e 85 del Trattato CEE, è bene ripetere, non si limita a regolare i comportamenti delle imprese. Esso <> (Giuseppe Tesauro, Diritto Comunitario, pp. 459-470, Cedam, 1995). Secondo quest'autore, la giurisprudenza comunitaria si è via via affinata, <> (Tesauro, ibidem). Il che ci riporta al concetto iniziale, del divieto che gli Stati membri possano concedere o imporre, con la legiferazione interna, ciò che le norme sulla concorrenza comunitarie vietano. In altre parole, non è concesso agli Stati compromettere o vanificare gli effetti utili sullo sviluppo della concorrenza assicurati dalla normativa comunitaria; non è concesso loro di legiferare in modo da imporre o agevolare la conclusione d'accordi o intese concordate tra imprese vietati dall'art. 85 e delle pratiche previste dall'art. 86. Parimenti è vietato agli stati membri di legiferare in modo da imporre l'osservanza o rafforzare gli effetti di accordi o intese o pratiche previsti e vietati dagli artt. 85 e 86 del Trattato CE. Appare, per gli aspetti appena illustrati, indubitabile che il comma 3 dell'art. 25 del decreto legislativo 4 agosto 1999 n. 342 si ponga in palese contrasto con gli artt. 3, lett. g, 5, 85, 86 e 90 del Trattato che istituisce la Comunità europea. Il comma 3 dell'art. 25 e la Direttiva 93/13/CEE: norme sulle clausole abusive La Direttiva del 5 aprile 1993 è una delle norme fondamentali per la difesa del consumatore emanate dal Consiglio della C.E. Essa vieta e rende inefficaci le clausole, contenute nei contratti, che non siano soggette a negoziazione individuale, quelle che non siano redatte in modo chiaro e comprensibile dal consumatore, e statuisce la prevalenza dell'interpretazione delle clausole contrattuali più favorevole al consumatore. La Direttiva 93/13/CEE dapprima premette che: <<...i contratti devono essere redatti in termini chiari e comprensibili, che il consumatore deve avere la possibilità effettiva di prendere conoscenza di tutte le clausole e che, in caso di dubbio, deve prevalere l'interpretazione più favorevole al consumatore; considerando che gli Stati Membri devono prendere misure necessarie per evitare l'inserzione di clausole abusive in contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori; che se, ciò nonostante, tali clausole figurano in detti contratti, esse non vincoleranno il consumatore, e il contratto resta vincolante per le parti secondo le stesse condizioni, qualora possa sussistere anche senza le clausole abusive...>>, e poi così recita all'art. 3: <<1. Una clausola contrattuale, che non è stata oggetto di negoziato individuale, si considera abusiva se, malgrado il requisito della buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto. 2. Si considera che una clausola non sia stata oggetto di negoziato individuale quando è stata redatta preventivamente in particolare nell'ambito di un contratto di adesione e il consumatore non ha di conseguenza potuto esercitare alcuna influenza sul suo contenuto. Il fatto che taluni elementi di una clausola o che una clausola isolata siano stati oggetto di negoziato individuale non esclude l'applicazione del presente articolo alla parte restante di un contratto, qualora una valutazione globale porti alla conclusione che si tratta comunque di un contratto di adesione. Qualora il professionista affermi che una clausola standardizzata è stata oggetto di negoziato individuale, gli incombe l'onere della prova>>. E stabilisce all'art. 6: <<1. Gli Stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali, e che il contratto resti vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive. 2. Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché il consumatore non sia privato della protezione assicurata dalla presente direttiva a motivo della scelta della legislazione di un paese terzo come legislazione applicabile al contratto, laddove il contratto presenti un legame stretto con il territorio di uno Stato membro>>. Qualora la comune esperienza non fosse sufficiente, ricordiamo nuovamente che ben due volte la Corte di Cassazione, nelle sentenze del marzo 1999, ha giudicato la clausola sull'anatocismo, inserita nei contratti bancari, insuscettibile di negoziazione individuale, sottoposta al cliente secondo il metodo e lo spirito del prendre ou laisser, condizione indefettibile per accedere alla concessione del credito. La fattispecie è quella vera e propria di clausola abusiva sia perché essa "determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto", sia perché è "insuscettibile di negoziazione individuale" ovvero "redatta preventivamente in particolare nell'ambito di un contratto di adesione e il consumatore non ha di conseguenza potuto esercitare alcuna influenza sul suo contenuto". Possiamo concludere che per l'aspetto appena esaminato si realizza un palese e specifico contrasto tra il comma 3 dell'art. 25 -ma, in senso più lato, di tutto l'art. 25- del decreto legislativo 4 agosto 1999 n. 342 e la direttiva 93/13/CEE. Sia detto per inciso, la direttiva appena richiamata supera anche la querelle sugli usi normativi, semmai vi fosse ancora bisogno di tornare sull'argomento. Essa, infatti, al comma 2 dell'art. 1 così recita: <>. Gli usi, eccezione prevista dall'art. 1283 c.c. per consentire l'anatocismo, non rientrano tra le "disposizioni legislative o regolamentari imperative" previste dalla direttiva e quindi le clausole contrattuali che lo prevedono sono, anche per questo aspetto, abusive. Il comma 2 dell'art. 25 e le norme comunitarie sulla concorrenza A ben osservare, l'art. 25 del decreto che stiamo esaminando appare in contrasto con le citate norme del Trattato CE anche per le prescrizioni previste dal comma 2 ove <>. Il semplice postulare ed imporre che gli interessi debbano sistematicamente fruttare interessi agli istituti di credito prestatori di denaro riuniti, per di più, sotto l'egida dell'A.B.I. (Associazione Bancaria Italiana) -sia pure attraverso una capitalizzazione annuale- appare in contrasto con i principi comunitari. La chiusura trimestrale o annuale, nel caso dell'apertura di credito in conto corrente, con capitalizzazione degli interessi e relativo anatocismo, non è l'unico tra i sistemi possibili per retribuire gli istituti di credito. E' certo il più discutibile: inaccettabile dal punto di vista della trasparenza, tra l'altro. Specie disvelando che, come abbiamo visto, gli anatocismi sono due e si moltiplicano reciprocamente: quello degli interessi e quello della commissione di massimo scoperto. Esistono possibili alternative che solo un'effettiva affermazione dei principi di una libera concorrenza può realizzare. Ci riferiamo all'art. 1193 del codice civile che prevede un sistema trasparente e proporzionale di percezione delle competenze da parte degli istituti di credito prestatori di denaro, proporzionale, s'intende, al rimborso del capitale prestato. Recita, infatti, tale articolo: <>. L'ultimo comma pare ben attagliarsi alla fattispecie del rapporto di apertura di credito in conto corrente. Precludere lo sviluppo di tali alternative, vantaggiose per il consumatore o, in generale, per il contraente più debole, equivale a vanificare il dettato degli art. 85 e 85 del Trattato CE. La misura contenuta nel comma 2 dell'art. 27 del decreto in questione rientra a pieno titolo tra quelle <> (Tesauro, p. 462, op cit.). La Corte di giustizia europea ha avuto già modo di censurare tale fattispecie di misure statali1, è lecito e doveroso sottoporle a giudizio questa appena illustrata. E' importante sottolineare che, sia lecito o meno l'anatocismo, esso rappresenta pur sempre un costo che deve essere quantificato al fine di calcolare il T.E.G ai sensi della legge 108/96. Il fatto di ammettere anche questo meccanismo tra quelli consentiti per la percezione delle competenze non lo sottrae dal computo delle "remunerazioni a qualsiasi titolo" che sono richieste all'utente in cambio dell'erogazione del credito, onde determinare il T.E.G. Il punto è: come considerare codesto meccanismo allorquando determini il superamento della soglia usuraria. Conseguenze del sistema anatocistico sull'economia delle imprese e sui consumatori La legge 7 marzo 1996 n. 108 ha reso onnicomprensiva l'accezione degli interessi espressa dalla direttive 87/102/CEE e 90/88/CEE, e ne ha esteso l'applicazione anche al credito commerciale. La Lega Anti Usura, nell'esaminare qualche decina di rapporti di conto corrente intrattenuti da suoi soci con le banche, ha potuto scientificamente rilevare che, se si analizzano solo dal 31.3.96, data di riferimento per l'entrata in vigore della legge 108/96, computando il costo degli interessi sugli interessi, i tassi salgono vertiginosamente sino ad arrivare all'infinito giacché le banche arrivano ben presto a percepire interessi non su un credito a loro favore ma su un proprio debito (un credito per il cliente). A parte la sconcertante constatazione che le soglie dei tassi usurari sono frequentemente superate nella generale indifferenza delle Autorità preposte al controllo, attraverso l'analisi contabile dei conti correnti si ha la dimostrazione incontrovertibile che, con gli attuali meccanismi di percezione degli interessi, il debito vantato dalle banche è in breve lasso di tempo costituito solo dagli interessi. I versamenti effettuati dalla clientela sono conteggiati per pagare prevalentemente questi ultimi e non, come si dovrebbe, considerati come capitali proporzionalmente restituiti. In realtà, applicando la legge, il capitale prestato dalla banca, in genere, risulta da tempo restituito dall'ignaro cliente; con questi meccanismi ogni debito tende a perpetuarsi. La stessa Suprema Corte di Cassazione (sentenza 16 marzo 1999, n. 2374) si è preoccupata di rilevare che <>. E' intuitivo considerare che l'effetto moltiplicatore si innalza progressivamente con l'innalzarsi dei tassi di interessi applicati, quindi il raddoppio degli interessi è raggiunto in tempi sensibilmente inferiori attuando tassi crescenti. Tuttavia è necessario sottolineare che la Suprema Corte non ha qui considerato l'effetto combinato che risulta applicando il doppio anatocismo trimestrale degli interessi e della commissione di massimo scoperto che risulta, in qualche caso, essere devastante. L'entità del prelievo effettuata con i sistemi usati dalle banche con la loro clientela -e dichiarati illegali dalla legge e dalla Cassazione- è, senza esagerazioni, spropositata e sottovalutata o ignorata nelle sue dimensioni anche da chi, giurista o politico o economista, si occupa per professione della materia. In Italia le conseguenze economiche di tali prelievi, e quelle sociali (fallimenti, perdita di posti di lavoro, suicidi, depressioni, crisi familiari, consumo di stupefacenti, ecc.) sono immaginabili ma non esattamente quantificate. Il decreto legislativo 4 agosto 1999 n. 342, circostanza che inquieta, vede la luce all'indomani delle storiche e sopra citate sentenze della Suprema Corte di Cassazione e favorisce i soli contraenti "forti", le banche. Da questo punto di vista è un provvedimento iniquo che tende a vanificare gli effetti di tutta la legislazione, a difesa del contraente debole, che si è prodotta dal 1990 ad oggi per impulso determinante della Comunità europea. Esso si pone in contrasto con gli artt. 3, lett. g, 5, 85, 86 e 90 del Trattato che istituisce la Comunità europea e con la Direttiva 93/13/CEE. Per quanto sinora esposto, quindi, i sottoscrittori della presente petizione CHIEDONO Che contro l'Italia sia instaurata una procedura d'infrazione presso la Corte di Giustizia Europea per ristabilire il rispetto del Diritto comunitario. Roma, 24.2.2000 Gianni Colangelo - Coordinatore Adusbef Regione Abruzzo Seguono altre firme.

24/02/2000

Documento n.3081

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