Disposizioni per la riduzione dell’indebitamento: legittimità costituzionale e implicazioni macroeconomiche. Dr. Francesco Strocchia
Disposizioni per la riduzione dell’indebitamento:
legittimità costituzionale e implicazioni macroeconomiche
Di Francesco Strocchia
Sommario: 1) Introduzione 2) Il contenuto della sentenza n. 205/2013 della Corte costituzionale 3) Il favor generalizzato per le politiche di risanamento 4) Risanamento e investimento: analisi comparativa degli effetti 5) Vincoli generali al risanamento 6) Considerazioni conclusive
1) Introduzione
La Corte costituzionale, a mezzo della sentenza depositata il 18 luglio 2013, n. 205, pubblicata nella G. U. n. 30 del 24 luglio 2013, ha deliberato in merito al ricorso presentato dalla regione Veneto il 12 ottobre 2012, relativamente alla asserita illegittimità di diverse norme del D. L. 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, tra le quali, per quanto qui interessa, l’art. 23 ter, c. 1, lett. g).
Tale norma ha novellato l’art. 33 del D. L. 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, in tema di valorizzazione del patrimonio pubblico immobiliare, inserendovi il nuovo c. 8 ter. Questo prevede la costituzione di appositi fondi d’investimento immobiliare ai quali anche gli enti territoriali possono conferire beni di proprietà, disponendo tuttavia che la totalità delle risorse provenienti dalla valorizzazione e alienazione degli immobili così trasferiti sia destinata alla riduzione del debito dell’ente medesimo e, solo in assenza di questo, o comunque per la parte eventualmente eccedente, a spese di investimento.
La regione ricorrente sosteneva che la disposizione oggetto del rinvio, fissando una precisa priorità nella destinazione delle risorse in questione, con vincolo alla riduzione dell’indebitamento e, solo in via residuale a spese di investimento, fosse lesiva degli artt. 3 e 97 Cost., sotto il profilo del principio della ragionevolezza e del buon andamento dell’azione amministrativa, traducendosi in una norma irragionevole.
In senso ulteriore, veniva anche evidenziato come la valorizzazione e l’alienazione degli immobili di proprietà regionale e locale, rientrando nella materia attinente il patrimonio, fosse certamente sussumibile nella potestà legislativa regionale residuale, di cui all’art. 117, c. 4, Cost., inibendo pertanto ogni intervento legislativo dello Stato.
Tra le motivazioni addotte dalla ricorrente anche il carattere puntuale e di estremo dettaglio della disposizione medesima, da ritenersi pertanto lesiva della competenza legislativa concorrente delle regioni in materia di coordinamento della finanza pubblica; inoltre il vincolo posto dal legislatore statale alla destinazione specifica delle risorse avrebbe interferito con l’esercizio delle funzioni amministrative degli enti territoriali, ledendone anche l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa, sancita dall’art. 119, c. 1, Cost.
2) Il contenuto della sentenza n. 205/2013 della Corte costituzionale
L’Avvocatura generale dello Stato, costituitasi in giudizio, sosteneva, d’altra parte, che la disposizione in questione, piuttosto che porre uno specifico vincolo di destinazione, esprimesse, nel posporre la possibilità di effettuare investimenti rispetto all’obiettivo della riduzione del debito, un principio fondamentale di finanza pubblica, espressione, come tale, di una potestà legislativa esclusiva nella materia, posta nell’ottica del conseguimento del pareggio di bilancio. Essa richiamava infatti l’assunto che la riduzione del debito potesse comportare, per il risparmio degli interessi da corrispondersi, una contrazione della spesa corrente cui ricondurre, ceteris paribus, benefici effetti sul bilancio medesimo.
I Giudici costituzionali, nell’esporre le motivazioni della sentenza, hanno ritenuto, in primo luogo, che la questione posta dalla regione Veneto in relazione agli artt. 3 e 97 Cost. è inammissibile. Ciò perché, secondo un percorso giurisprudenziale consolidato a livello costituzionale, nei giudizi in via principale, le regioni sono legittimate a censurare le leggi emanate dallo Stato solamente in riferimento a parametri relativi al riparto delle rispettive competenze normative, evocandone altri soltanto qualora questi abbiano subito una compromissione delle attribuzioni costituzionalmente garantite alle regioni medesime.
Nella fattispecie, invece, non risulterebbero motivate, se non in maniera generica, le lamentate violazioni sul riparto delle competenze medesime. Deriva da ciò – secondo i Giudici costituzionali – la formulazione dell’inammissibilità della questione sollevata in riferimento ai parametri costituzionali in questione.
La Corte ha poi giudicato infondata la questione della legittimità costituzionale della disposizione in questione relativamente all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost.
I Giudici hanno motivato tale assunto osservando che l’art. 23 ter, c. 1, lett. g), D. L. n. 95/2012, anteponendo la riduzione dell’indebitamento alla possibile, alternativa destinazione alla spesa di investimento, costituisce l’espressione di un principio fondamentale nella materia, di competenza concorrente, del coordinamento della finanza pubblica, non giungendo a porre disposizioni di dettaglio tali da inficiare il concorso medesimo.
Al fine di evidenziare l’organicità di tale conclusione, i Giudici medesimi hanno anche richiamato la precedente sentenza n. 63/2013, relativamente alla legittimità costituzionale dell’art. 66, c. 9, D. L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 24, laddove stabilisce, in senso analogo alla disposizione de qua, che gli enti territoriali debbono destinare le risorse derivanti dalle dismissioni di terreni demaniali agricoli e a vocazione agricola alla riduzione del debito.
In tal modo essi sono giunti ad affermare l’esistenza di una precisa scelta di politica economica nazionale, assunta in vista di un risanamento della finanza pubblica in un quadro di “eccezionale emergenza finanziaria che il Paese sta attraversando”, tale da richiedere anche il necessario concorso delle autonomie locali. Il vincolo di destinazione delle risorse all’obiettivo generale della riduzione del debito, si pone pertanto in quest’ottica.
Una volta considerate le disposizioni in questione nell’ambito della materia di competenza concorrente, tesa, in senso organico, al raggiungimento di un obiettivo di finanza pubblica, la Corte ha escluso ogni compromissione della potestà legislativa concorrente, sia perché esse si limitano a porre un transitorio contenimento della spesa a fini di riequilibrio generale, sia perché non sono previste, a tal fine, in modo esaustivo, strumenti o modalità relative.
Ne segue pertanto, quale conclusione, che la previsione di un vincolo alla destinazione delle risorse, esprimendo un principio di coordinamento della finanza pubblica, può legittimamente comportare una limitazione dell’autonomia amministrativa delle regioni.
3) Il favor generalizzato per le politiche di risanamento
La sentenza della Consulta ha pertanto stabilito che la disposizione in questione, che antepone la riduzione dell’indebitamento alla spesa per investimenti – l’unica tipologia possibile, posta la natura delle risorse derivanti da valorizzazioni e disinvestimenti immobiliari – quale norma di coordinamento della finanza pubblica, è pienamente conforme al dettato costituzionale, non inficiando la potestà normativa concorrente, prevista nella materia de qua.
Pur essendo la norma in questione senza alcuna alternativa per gli enti territoriali, si può certamente convenire che le decisioni di politica economica non possano certamente risultare, in termini sostanziali, divaricanti tra l’amministrazione centrale e quella territoriale. Non si può ammettere, infatti, che nel primo caso si privilegi una riduzione dell’indebitamento, perseguendosi così un risanamento finanziario, e nel secondo, invece, una destinazione alternativa, appunto all’investimento ed allo sviluppo.
Ciò premesso, ed al di là dell’aspetto meramente giuridico, se ne possono tuttavia valutare le conseguenze a livello macroeconomico, che possono porsi in termini differenti a seconda della soluzione scelta.
La norma sempre in questione, che comunque ha suscitato profili di incostituzionalità non manifestamente infondati, è tuttavia pur sempre di carattere specifico, disciplinando la destinazione di risorse ritratte da cespiti immobiliari, riguardo alle quali la legislazione statale ha effettuato una scelta univoca, imponendone l’utilizzo per la riduzione del debito piuttosto che per la realizzazione di investimenti.
Essa è comunque solo un esempio di un favor generalizzato in tal senso, che pervade tutta la legislazione, rappresentando pertanto una opzione radicata nel sistema, a sua volta espressione di una precisa filosofia economica.
Infatti, anche nella legge rafforzata 24 dicembre 2012, n. 243, di attuazione del principio costituzionale del pareggio di bilancio, talune disposizioni si pongono nella stessa ottica: in particolare, l’art. 9, c. 3, in tema di equilibri di bilancio degli enti territoriali, ove espressamente si afferma che gli eventuali saldi positivi emergenti debbano essere analogamente destinati alla riduzione del debito e solo subordinatamente, nel rispetto degli appositi vincoli previsti, al finanziamento di spese di investimento.
Ancora, l’art. 8, c. 1, legge 12 novembre 2011, n. 183, già prevedeva che gli enti locali dovessero ridurre lo stock del debito comunque eccedente quello medio pro-capite da stabilirsi in un apposito decreto, secondo modalità fissate nello stesso.
A tutt’oggi la norma - che prefigura un taglio del tutto lineare dell’indebitamento di ciascun ente, senza distinzione tra quelli che hanno fatto buon uso di tale risorsa e quelli che, invece, hanno con esso appesantito soltanto i bilanci futuri - non è operativa, appunto in assenza di tale decreto applicativo; essa è comunque indicativa di una filosofia che, se attuata a livello generale, per qualsiasi tipologia di risorse, come nelle ultime disposizioni richiamate, e non solo per talune, quali quelle di provenienza immobiliare – come nella norma oggetto di rinvio a livello costituzionale – può porsi in termini di un’opzione generalizzata che privilegia il solo risanamento finanziario, piuttosto che lo sviluppo del sistema economico, obiettivi che possono rivelarsi antitetici fra loro.
4) Risanamento e investimento: analisi comparativa degli effetti
L’opzione per il risanamento finanziario, qui inteso in termini soprattutto di riduzione dell’indebitamento contratto nel passato, è una filosofia che pervade pertanto la legislazione nazionale, ispirandosi comunque ad una del tutto analoga, diffusa a livello europeo e traslata in accordi ratificati dallo Stato italiano [1].
Va comunque posto in risalto che la valenza attribuita all’influenza dell’indebitamento sugli equilibri e sullo sviluppo dei sistemi economici, lungi dal poter essere disconosciuta, pare sia stata posta in termini eccessivi e non sempre razionali. Esso può certamente costituire uno svantaggio, dovendosi sottostare alle vicissitudini dei mercati, anche in sede di rinnovo a scadenza, ma non rappresenta, negli specifici termini nei quali è invece stata posta, quella causa esclusiva dei mali che affliggono i sistemi economici, primariamente il nostro.
Nell’impossibilità di esaminare tutti i risvolti sottesi a tale affermazione, basti pensare che, per la parte di debito pubblico in possesso dei cittadini, gli interessi percepiti e le imposte pagate costituiscono comunque una partita di giro per il sistema economico nel suo complesso (principio di Ricardo), pertanto con effetti compensativi, mentre è invece essenziale, come per qualunque soggetto indebitato che deve continuare a chiedere credito ai suoi finanziatori, la continuità dello sviluppo economico, quale reale garanzia dell’indebitamento medesimo.
A tal proposito, giova ricordare che la tesi, ampiamente recepita dai media, circa la correlazione tra indebitamento pubblico ed equilibrio dei sistemi economici, tesa a sostenere l’impossibilità del loro sviluppo in presenza di un indebitamento superiore al 90 per cento del Pil (teoria di Reihart-Rogoff), è stata clamorosamente dichiarata non veritiera.
Se ciò dovrebbe pertanto ricondurre la valutazione dell’influenza del debito pubblico entro confini più razionali, resta in ogni caso la necessità di farne rientrare l’incidenza entro parametri di maggior sostenibilità; tale obiettivo richiede tuttavia di puntare prevalentemente sullo sviluppo del sistema, piuttosto che su manovre soltanto deflazionistiche, tipicamente rappresentate da opzioni per la riduzione dell’indebitamento medesimo, che risultano sostanzialmente alternative al primo.
Ciò può essere rappresentato in nuce attraverso una breve rappresentazione schematica. In essa, non si considerano gli effetti prodotti direttamente in capo ad un ente da una scelta comparativa tra rimborso anticipato del debito o nuovi investimenti, fattispecie che, in assenza di vincoli, dovrebbe essere effettuata sulla base delle tecniche del controllo di gestione strategico, principalmente attualizzando i flussi di cassa futuri ritraibili dall’investimento (tecnica del valore attuale netto o Van) e comparandoli con i benefici originati dai risparmi in linea capitale ed interessi conseguenti all’estinzione anticipata dell’indebitamento medesimo; coerentemente con l’assunto posto, vengono invece analizzati quelli macroeconomici, che derivano a livello generale tra due possibili modalità di impiego di risorse disponibili, evidenziandone i differenti effetti.
Si supponga, a tal proposito, che un ente territoriale abbia in corso di ammortamento mutui per euro 100.000.000,00, rimborsabili in 10 annualità costanti di euro 10.000.000,00 ciascuna. In presenza di risorse disponibili, la decisione di estinguerli tutti anticipatamente, ipotizzando, per comodità, proprio un esborso di euro 100.000.000,00 o, alternativamente, di impiegare immediatamente tali risorse per investimenti pubblici, comporta i seguenti, diversi effetti sul piano economico generale.
- caso di estinzione anticipata
L’ente estingue, nell’anno “n”, i mutui in essere, con un esborso di euro 100.000.000,00, rinunziando ad altri impieghi di tali risorse; solo a partire dall’anno successivo si genereranno gli effetti riconducibili, in termini economico generali, alla nuova disponibilità di euro 10.000.000,00 – pari ai mancati pagamenti dell’anno in linea capitale ed interessi – che si suppongano destinati all’investimento [2]. Posta una propensione marginale al consumo (c), pari a 0,75, l’effetto moltiplicativo finale sul piano economico, in termini di reddito incrementale prodotto (∆Y), risulterà [3]:
∆Y = ∆I 1/(1- c)
dove ∆I = 10.000.000,00 e (1 - c) = s = 0,25 (propensione marginale al risparmio) [4].
Si avrà pertanto:
∆Y = 10.000.000,00 x 1/0,25
Ovvero:
∆Y = 40.000.000,00
Tale sarà, sulla base delle ipotesi formulate, l’effetto finale indotto dall’investimento reso possibile, nell’anno (n + 1), dalle risorse che l’ente, avendo rimborsato il proprio debito, si trova ora disponibili. E ciò potrà ripetersi per ciascuno dei rimanenti anni del periodo di ammortamento dei mutui, generando pertanto un effetto cumulato sul reddito prodotto pari a euro 40.000.000,00 x 10 = euro 400.000.000,00.
- caso di nuovi investimenti
L’ente destina le risorse disponibili ad investimenti, rinunziando all’estinzione anticipata dell’indebitamento; si genererebbe immediatamente un processo moltiplicativo del reddito/Pil che, sulla base dei parametri già utilizzati, assumerebbe la quantificazione finale seguente.
Essendo infatti:
∆I = 100.000.000,00 e s = 0,25
Si avrà, analogamente al caso precedente,
∆Y = 100.000.000,00 x 1/0,25
Cioè:
∆Y = 400.000.000,00
In effetti, i benefici effettivi conseguenti ai due diversi comportamenti si eguaglierebbero tra loro in termini nominali, risultando entrambi pari ad euro 400.000.000,00, anche se sarebbero tra loro disallineati temporalmente: nel secondo caso si innescherebbe infatti immediatamente il processo moltiplicativo conseguente all’investimento effettuato per euro 100.000.000,00, determinando, alla fine del processo di propagazione, un effetto indotto sul reddito/Pil pari al quadruplo di quello iniziale; nel primo, invece, gli effetti risulterebbero tutti più lenti e posposti nel tempo. L’effetto moltiplicativo innescato dall’investimento risulterebbe infatti pari ad un decimo del precedente per ogni anno, a valere per altrettante trance, oltre che dilazionato, poiché l’ultima comincerebbe ad esercitarlo soltanto ad iniziare dall’ultimo anno del decennio ipotizzato.
Ne segue che, allorché un sistema economico avesse urgente bisogno di stimoli per una ripresa, non si dovrebbe puntare esclusivamente sulla riduzione dell’indebitamento precedentemente contratto, bensì si dovrebbero promuovere investimenti immediati, in grado di innescare quel processo moltiplicativo indotto che conduce all’incremento del potere di acquisto circolante che, in momenti di recessione, rappresenta l’unica strada percorribile per una ripresa effettiva.
Resta comunque confermato, d’altro canto, che, ove lo stesso sistema economico si trovasse invece vicino ad una situazione di equilibrio, si potrebbe allora più utilmente puntare su una riduzione dell’indebitamento esistente, concorrendo in tal modo al suo risanamento, dilazionando l’investimento ed attuando, nel contempo, una politica perequativa del ciclo economico.
5) Vincoli generali al risanamento
La conclusione emergente dal raffronto comparativo degli effetti riconducibili alle due diverse ipotesi, rispettivamente dell’investimento immediato delle risorse disponibili, senza riduzione dell’indebitamento, ovvero il ricorso a quest’ultima, con utilizzo graduale delle risorse ritraibili dalle economie di spesa per le rate di ammortamento non più dovute, può apparire alquanto scontata.
Essa evidenzia, tuttavia, come non si prefiguri alcuna possibilità di opzione univoca tra le due ipotesi: ciò dovrebbe infatti dipendere dalla fase in cui si trova il sistema economico, a seconda della quale si possa annettere, nelle fasi di prosperità, maggior valenza alla riduzione del debito, ovvero, in quelle di recessione, alla spesa per investimenti.
Ciò detto, tale conclusione va tuttavia analizzata anche affrontando la questione della provenienza delle risorse disponibili ed utilizzabili a tal fine. Sin qui, infatti, coerentemente con la fattispecie normativa in questione, ci si è implicitamente riferiti a risorse derivanti dal disinvestimento immobiliare, quindi da una grandezza esogena rispetto al reddito/Pil, relativamente alla quale se ne sono analizzati gli effetti.
Diversamente si pone, invece, l’ipotesi nella quale le risorse per la riduzione anticipata del debito in essere fossero attinte al reddito medesimo, verosimilmente nella forma del ricorso ad una tassazione incrementale. In tal caso, infatti, la conseguente riduzione del reddito disponibile innescherebbe, di per sé, un effetto demoltiplicativo che tuttavia, anche in questo caso, troverebbe riscontro in uno correlativo di valenza opposta, generato dagli investimenti resi possibili dalle risorse non più necessarie per l’ammortamento, per capitale ed interessi, dei prestiti anticipatamente rimborsati.
I due effetti moltiplicativi, di segno opposto e tendenzialmente uguali in valore assoluto [5], tenderebbero ad elidersi vicendevolmente, con una risultante sostanzialmente neutra per il sistema economico generale, per cui la possibilità di conseguire comunque uno sviluppo rimarrebbe ancorata ad un surplus dell’incremento del reddito/Pil rispetto alla tassazione incrementale.
Tale conclusione, tuttavia, può riferirsi esclusivamente agli enti territoriali, il cui indebitamento è in massima parte costituito da prestiti ammortizzabili gradualmente, con rate composte da interessi e capitale; non così, invece, nel caso dello Stato, per il quale lo stesso è ammortizzabile in unica soluzione e viene di fatto rinnovato a scadenza, in modo rotativo. Ciò comporta che il risparmio effettivamente derivante da rimborsi anticipati può solo riferirsi alle quote interessi, e pertanto, a fronte degli effetti demoltiplicativi riconducibili alla tassazione incrementale, possono far riscontro soltanto quelli, di segno opposto, solo a ciò relativi, generandosi pertanto un effetto demoltiplicativo netto pari al prelievo per il rimborso in linea capitale.
In tale situazione, la possibilità di perseguire ancora uno sviluppo del sistema economico si basa sul fatto che l’incremento del Pil possa almeno bilanciare tali effetti, lasciando comunque un margine incrementale [6].
6) Considerazioni conclusive
Le conclusioni esposte, che traggono il loro spunto primigenio da una normativa speciale, riferita alla destinazione di risorse comunque particolari, provenienti da dismissioni immobiliari, evidenziano, al di là degli aspetti giuridici sottoposti alla Corte costituzionale, che il risanamento finanziario, inteso come riduzione dello stock di debito accumulato, non sfugge, in ogni caso, ad un principio economico fondamentale: esso è possibile solo con l’utilizzo di un surplus di risorse destinabili in tal senso, senza poter intaccare il flusso corrente di reddito destinato a mantenere un adeguato livello di consumi e di investimenti.
Il ricorso alle cessioni patrimoniali, come nella fattispecie normativa esaminata, genera effetti comunque positivi in linea corrente, seppur con modalità differenziate a seconda dell’utilizzo, come già visto, determinandosi tuttavia un travaso da uno stock di risorse ad un flusso, pertanto a fronte di un impoverimento patrimoniale.
In termini più generali, allorché le risorse relative vengano attinte a quelle correnti, tale principio di fondo risulta comunque ribadito, evidenziandosi come il risanamento finanziario in questione sia possibile esclusivamente utilizzandone di aggiuntive rispetto a quelle atte a mantenere un adeguato trend dei consumi e degli investimenti; altrimenti gli effetti demoltiplicativi indotti, ove non bilanciati da risorse residuali disponibili, possono trascinare il sistema verso quella che potrebbe definirsi “trappola del risanamento”, nella quale quanto più si sottraggono tali risorse per il rimborso del debito, tanto più il sistema medesimo si avvita in una spirale recessiva, con caduta della domanda di consumi, investimenti e occupazione.
Settembre 2013 Francesco Strocchia
[1] Ci si riferisce in particolare al fiscal compact, che prevede appunto, per il nostro Paese, la riduzione, in un ventennio, della quota del debito pubblico eccedente il 60 per cento del Pil. Allo stato, ciò non ha alcuna sostenibilità sul piano macroeconomico, per l’entità e la durata del risanamento richiesto.
[2] Gli effetti sarebbero comunque analoghi per qualsiasi destinazione inerente le componenti autonome della domanda.
[3] Ponendo l’ipotesi semplificatrice dell’uguaglianza del flusso di redditi da e per l’estero, ciò può essere riferito anche al Pil.
[4] La propensione marginale al risparmio e quella al consumo, indici delle possibili, alternative destinazioni del reddito, sono complementari all’unità.
[5] In realtà, ove il prelievo fiscale incrementale consistesse in imposte dirette, l’effetto moltiplicativo superebbe l’altro (principio del bilancio equilibrato o teorema di Haavelmo).
[6] Ipotizzando, ad esempio, pari a 100 l’incremento della tassazione per il rimborso anticipato del debito, di cui 20 per interessi e 80 per rimborso del capitale, quindi con un effetto demoltiplicativo netto pari a quest’ultimo, l’incremento verificatosi del reddito/Pil dovrebbe pertanto essere superiore, in modo da bilanciare tale effetto con risorse residuali; ove ciò non si verificasse, permarrebbe nel sistema, in varia misura, un gap deflazionistico.
12/09/2013
Documento n.9474