BANCHE OFF SHORE: COME MAI UNICREDIT ED INTESA HANNO RAFFORZATO LA PRESENZA NEI PARADISI FISCALI E NEGLI STATI CANAGLIA ?

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1 - Bersaglio off shore... Vittorio Malagutti per "L'espresso" E adesso che cosa racconterà Silvio Berlusconi al suo amico Baldwin Spencer, capo di governo dello staterello di Antigua, paradiso fiscale tra i più esclusivi e rinomati del mondo? Una promessa è una promessa e il Cavaliere, che su quell'isola caraibica ha grandi interessi e un numero imprecisato di ville (c'è chi dice addirittura sette), tre anni fa si era speso personalmente con il suo collega Spencer. Il debito estero di Antigua? No problem. "Ci penso io ", disse Berlusconi assicurando un intervento in sede internazionale. Solo che adesso, nel pieno di una crisi economica globale, mentre traballano i sacri templi del denaro e le superbanche mondiali non sanno come fare per rattoppare i loro bilanci, i leader dei grandi paesi industrializzati hanno lanciato una campagna contro i centri off shore, rifugio privilegiato per enormi masse di capitali che hanno contribuito allo sconquasso di queste settimane. Angela Merkel, Nicolas Sarkozy, Gordon Brown: tutti invocano nuove regole per la finanza e puntano il dito contro i paradisi fiscali e societari. Berlusconi è con loro. Anche lui, domenica 22 febbraio, al termine del vertice tra i capi di governo dell'Unione europea, ha firmato il documento comune che minaccia sanzioni contro quelli che vengono eufemisticamente definiti i 'Paesi non cooperativi' in materia di tasse. Antigua rischia grosso. Con buona pace delle promesse berlusconiane. Tanto più che proprio l'isola caraibica ha dato ospitalità alla banca dell'uomo d'affari americano Allen Stanford, il protagonista (da pochi giorni agli arresti) dell'ultima colossale frode scoperchiata a Wall Street. E allora abbasso la finanza off shore. Su altre questioni centrali, come i salvataggi bancari, le valutazioni a bilancio dei titoli cosiddetti tossici, la regolamentazione degli hedge fund, non c'è accordo a livello globale. Tutti gridano al fuoco, ma scarseggiano le idee su come domare le fiamme. E così, i paradisi fiscali, che sembrano un obiettivo concreto e a portata di mano, sono finiti per primi nel mirino. Il 2 aprile prossimo a Londra, nel meeting delle 20 maggiori economie del pianeta (G 20), verrà elaborato un primo elenco delle piazze finanziarie off shore considerate fuori controllo. E poi si potrà discutere delle misure politiche da attuare. Facile a dirsi. Non è solo questione di evasione fiscale. O di riciclaggio di capitali provenienti da attività illecite come il narcotraffico o il commercio illegale di armi. Nell'arco degli ultimi vent'anni i paradisi fiscali sono diventati uno snodo fondamentale per il funzionamento della finanza globale. Quella che riesce a muovere capitali miliardari da un capo all'altro del pianeta con il semplice impulso elettronico di un computer. Qualche esempio pratico. I fondi di private equity, che negli anni Duemila hanno fatto incetta di grandi aziende su entrambe le sponde dell'Atlantico, spesso hanno sedi off shore oppure manovrano denaro che transita da veicoli societari esentasse. Di più: i gestori di queste corazzate della finanza, comprese quelle attive in Italia, si spartiscono le commissioni di gestione attraverso società ombra e così evitano di pagare le tasse. Gli hedge fund, accusati (ma solo con il senno di poi) di aver moltiplicato i rischi di sistema con le loro speculazioni di Borsa e sulle materie prime, hanno spesso sede nei Caraibi, negli Stati no tax. Nelle sole isole Cayman, il locale bollettino ufficiale a fine 2008 registrava l'esistenza di oltre diecimila hedge fund, circa la metà di quelli attivi nel mondo. E, a ben guardare, anche il gigantesco fiume dei titoli tossici, prima di approdare nei portafogli di milioni di investitori in tutto il mondo, è transitato dai paradisi off shore. Le cosiddette emissioni strutturate, cocktail micidiali di obbligazioni di ogni tipo, vere bombe a orologeria finanziarie, sono state formalmente collocate attraverso strutture costituite ad hoc dalle grandi banche internazionali. Queste particolari società, in gergo denominate 'special purpose vehicle', sono quasi sempre registrate al sole di qualche isoletta centroamericana. Venivano dalle Cayman, per esempio, i titoli della famigerata Anthracite, su cui hanno investito anche alcuni fondi pensione italiani. Il marchio di fabbrica, però, era quello della Lehman. I professionisti alle dipendenze della banca americana (fallita a settembre dell'anno scorso) hanno costruito le obbligazioni per poi metterle in vendita con la targa di Anthracite. Le variazioni su questo stesso tema appaiono pressoché infinite. I prodotti finanziari pensati a Wall Street o alla City di Londra, vengono assemblati nei paradisi fiscali e poi venduti agli investitori di tutto il mondo. Negli ultimi dieci anni, mentre venivano progressivamente abbattute le barriere al libero movimento dei capitali e il processo di deregulation ampliava a dismisura il raggio d'azione delle grandi istituzioni finanziarie, anche i paradisi fiscali si sono presi la loro fetta di una torta che era lievitata oltre ogni più ottimistica previsione. Si è così andata affermando una sorta di divisione del lavoro tra le varie piazze off shore. Ciascuna si è via via specializzata in un'attività particolare. A Bermuda vanno per la maggiore i servizi assicurativi. Le Cayman sono un punto di riferimento per gli hedge fund. Alle Bahamas, oltre a offrire società schermo per tutti i gusti, si sono buttati sui fondi d'investimento. Panama e le Isole Vergini britanniche (BVI) sono un approdo sicuro per chi vuole costituire società mantenendo l'anonimato più assoluto. La crescita esponenziale del giro d'affari legato a queste attività, oltre ad assicurare la prosperità a Stati altrimenti poveri di risorse (turismo a parte), ha attratto investimenti da tutto il mondo. Banche, istituzioni finanziarie, compagnie di assicurazioni hanno aperto filiali per offrire i propri servizi direttamente nei paradisi fiscali. Tutti i colossi del credito americani e britannici finiti in queste settimane sull'orlo del fallimento sono attivi da tempo nei principali centri off shore: quelli tradizionali nei Caraibi, ma anche nel Medio Oriente a Dubai o nel Far East a Singapore. Almeno "40 dei primi 50 istituti di credito mondiali hanno una sede alle Cayman", annuncia con comprensibile orgoglio il sito Internet della banca centrale del Paese caraibico. Anche gli italiani si sono mossi per tempo. Banca Intesa possiede filiali alle Bahamas e alle Cayman, ha inaugurato rappresentanze a Dubai e a Singapore. Sempre alle Cayman è attivo anche Unicredit che ha messo le proprie insegne al posto di quelle di Bank Austria, finita due anni fa nell'orbita del gruppo guidato da Alessandro Profumo. Un discorso simile vale anche per le Assicurazioni Generali che comprando la Banca della Svizzera italiana (Bsi) e poi la Banca del Gottardo hanno ereditato le filiali alle Bahamas dei due istituti svizzeri. L'Ifi, la holding della famiglia Agnelli, si è invece assicurata una vasta rete di società off shore rilevando nel 2007 il controllo del gruppo di servizi immobiliari statunitensi Cushman & Wakefield, presente a Singapore, alle Bahamas alle Cayman. Insomma, a quanto pare, nessun protagonista della finanza globale ha rinunciato a conquistare un posto al sole di qualche staterello caraibico. Tutti ricorrevano al doping degli affari esentasse. Tutti contribuivano allo sviluppo della finanza pirata dei paesi off shore. Era una scelta obbligata. Lo imponevano le regole del turbocapitalismo. Ora quel sistema è andato in crisi. Resta da vedere se, dopo anni di annunci a vuoto, il mondo sarà davvero capace di fare a meno dei paradisi fiscali. 2 - Caccia grossa al Cayman... Paolo Pontoniere per "l'Espresso" Prima Bernard Madoff e adesso Allen Stanford. I congressisti americani non trovano pace. In meno di due mesi si sono dovuti confrontare con due frodi bancarie made in Usa di proporzioni planetarie e che affondano le radici nel sottobosco finanziario dei paradisi fiscali internazionali. Al centro della loro attenzione ci sono gli Stati caraibici e le piccole nazioni dell'Atlantico settentrionale nelle quali trovano rifugio tutti gli hedge fund e gli operatori economici che cercano di sottrarsi alla sorveglianza della Security and Exchange Commission e al regime fiscale statunitense. Isole, per intenderci, come Antigua, Aruba, Barbados, Bahamas, Isole Cayman e Virgin Islands, dalle quali operavano le consociate dei due finanzieri statunitensi. Aziende come il Fairfield Greenwich Group e il Tremont Group Holdings, che prese assieme controllavano oltre 10 miliardi di dollari su un totale di 50 miliardi fatti sparire da Madoff. Il quale usava i paradisi fiscali per trasferire fondi a compagnie di comodo. Stanford, dal canto suo, aveva fatto di Antigua la propria patria (cittadinanza inclusa) e il cuore pulsante di una rete bancaria con interessi in America Latina e in Europa. Non è la prima volta che i paradisi off shore dei Caraibi finiscono nel mirino dei legislatori statunitensi. Era successo nel 2001 con il caso Enron, ma con un nulla di fatto. Il gruppo texano aveva usato qualcosa come 900 compagnie off shore per mascherare i suoi imbrogli. BAHAMAS Un'altra occasione s'era presentata nel 2005 con il fallimento del Bayou Management, un hedge fund del Connecticut che aveva realizzato uno schema piramidale di centinaia di milioni di dollari utilizzando finanziarie ombra dei Caraibi. Precedenti che avevano spinto nel 2007 Carl Levin, John Kerry e Norm Coleman, tre dei più influenti membri del Senato americano, a introdurre lo "Stop tax haven abuse act", una legge che mira a ridurre drasticamente la possibilità di evadere le tasse sugli investimenti realizzati nei porti franchi. La proposta era stata poi firmata anche da Barack Obama, all'epoca senatore, colpito dalla storia di un palazzo di uffici alle Isole Cayman nel quale ufficialmente risiedono oltre 12 mila compagnie americane. "O si tratta di un edifico enorme o d'una truffa enorme", aveva sottolineato stizzito il futuro presidente americano. E se il caso delle Cayman, che in totale ospitano oltre mezzo milione di aziende offshore, sorprende i legislatori americani, quello delle Isole Vergini britanniche li ammutolisce: secondo il Tax Justice Network, un organismo internazionale che si batte per l'abolizione dei paradisi fiscali, offrono rifugio ad oltre tre milioni di aziende e hedge fund. CAYMAN Secondo un rapporto del Senato di Washington, nell'ultimo decennio le grandi corporation e i Paperoni d'America sono così riusciti a sottrarre oltre 1.600 miliardi di dollari al fisco, a una media annuale di quasi 160 miliardi. "Quando si parla di ammanchi di tali dimensioni e dei dirigenti degli hedge funds bisogna immediatamente pensare ai paradisi fiscali", afferma Lucy Komisar, esperta di finanza internazionale e animatrice del blog The Komisar Scoop: "è infatti nelle banche di quei paesi che trasferiscono segretamente una buona parte dei loro capitali". Ma il trasferimento all'estero delle proprie ricchezze non è più una esclusiva degli ultraricchi. La platea dei conti off shore si è allargata nel tempo anche a fasce di risparmiatori della media e piccola borghesia americana che vi arrivano soprattutto attraverso il web. Persone che in passato mettevano i soldi in un fondo pensione, caso mai esentasse, per poterli usare una volta abbandonato il lavoro e che invece adesso li trasferiscono a Panama, in Belize, alle Bermuda, alle Bahamas, a Sao Tome & Principe o a St. Kitts & Nevis. Negli Stati Uniti, secondo le regole vigenti, portare capitali all'estero non costituisce una violazione automatica delle leggi federali, ma l'Irs - il fisco statunitense - lo equipara a un tentativo di evadere il fisco, soprattutto quando è in grado di dimostrare che il trasferimento è stato realizzato con l'intento esplicito di non pagare le tasse in America. Così, mentre il Congresso Usa e il presidente erano impegnati nella formulazione di una nuova politica economica che potesse salvare il paese dal baratro fiscale, in questi mesi è stato proprio l'Irs a dare filo da torcere alle aziende che trasferiscono i capitali all'estero. Isole Vergini Americane Utilizzando alcune clausole del Patriot Act, la legge anti-terrorismo approvata dal Congresso dopo gli attacchi dell'11 Settembre del 2001, l'erario statunitense ha avviato una serie di indagini nelle attività di alcune delle principali banche mondiali. Nella sua rete sono finite istituzioni come Ubs, Credito Svizzero, Hsbc e Deutsche Bank che, operando indipendentemente l'una dall'altra, avrebbero aiutato migliaia di cittadini e corporation americane a nascondere oltre 50 miliardi di dollari in conti segreti offshore. Naturalmente con un accorgimento fondamentale da parte del cliente: usare nomi di fantasia come Homer, Son of Boss e Cobra. Anche l'Equity development group, il maggiore gruppo statunitense che offre on line la possibilità di aprire conti offshore, è finito nel mirino dei regolatori. "Usando Internet è diventato più facile che mai spostare capitali all'estero", dichiara Selva Ozelli, avvocato newyorchese esperta di normativa fiscale internazionale, "e questo ha facilitato la diffusione della pratica a livello di massa". Oggi, negli Stati Uniti, l'onere di dimostrare che l'investimento individuale o il trasferimento all'estero della sede aziendale è stato effettuato per sfuggire alle tasse ricade sulle spalle del fisco. "Ma questo potrebbe cambiare molto presto", afferma Andrea M. Ewart, avvocato di Washington esperto di contabilità aziendale, "e se passa la proposta di Levin e Obama, la responsabilità di dimostrare che non lo si è fatto per evadere le tasse ricadrà sul contribuente". Qualora le spiegazioni non dovessero essere sufficienti, le multe dell'Irs saranno probabilmente molto salate: si dice fino al 50 per cento del valore dei depositi oltre a penali quotidiane che in poche settimane possono superare di gran lunga il valore complessivo del conto bersagliato. Per non parlare poi delle sanzioni nel caso sia comprovata l'evasione fiscale, già oggi molto pesanti negli Usa. Intanto l'amministrazione Obama, ben decisa a recuperare i capitali evasi, ha stilato una lista di 34 paradisi fiscali da mettere alla berlina. Di questi, ben 15 si trovano nei Caraibi mentre il resto è distribuito tra l'Europa e l'Asia. Isole Vergini Britanniche "Consiglierei ai paesi che ne fanno parte di cercare di uscire dal gruppo", dichiara Ewart: "l'amministrazione Obama ha infatti affermato che non esiterà a ricorrere alle sanzioni economiche pur di impedire agli americani di trasferire capitali all'estero". Sarà un caso, ma a metà di febbraio il colosso svizzero Ubs, rompendo con una tradizione ferrea di segreti bancari e dopo aver pagato una multa di 780 milioni di dollari all'Irs, ha deciso di rivelare alle autorità bancarie Usa l'identità di circa 250 americani che possiedono conti segreti nella sua sede elvetica. In realtà la partita non è chiusa. Da Washington arriva infatti la richiesta esplicita di ottenere l'intera lista dei 52 mila correntisti a stelle e strisce. Gli svizzeri, punti nel loro orgoglio, hanno per ora detto no. Nessuna deroga al protettissimo segreto bancario. Ma l'onda lunga contro i privilegi fiscali va ormai dall'America all'Europa, con poche eccezioni. Per Zurigo è una sfida vitale. Resisterà l'ostracismo elvetico?

27/02/2009

Documento n.7777

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