BANCHE: L'ABOMINEVOLE TANLONGO ED IL CRACK DELLA BANCA ROMANA

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ITALIANI ALLO SPECCHIO L' abominevole Tanlongo e il crac della Banca Romana tratto da www.corriere.it «Non è stato donnaiolo, non ha mai giocato, è agli antipodi di ogni eleganza, la sua frugalità rassomiglia da vicino all' avarizia...». Così veniva descritto sul Corriere della Sera del 20-21 gennaio 1893 il settantatreenne Bernardo Tanlongo, banchiere abominevole ma romanissimo. Nella sua vecchia palandrana tra i saloni della sua banca, dove dalle sedie di cuoio usciva la stoppa dell' imbottitura, egli era per tutti l' affannato Sor Bernà. Cresciuto nella Roma del Papa Re e reso ancor più potente dagli imbrogli edili di Roma capitale, aveva fronte vasta e la barba bianca, venerabile come quella dei vecchi di Omero. Ma la sua maniera di estrarre dai cassetti pratiche e lettere di cui parlare davanti a chi gli chiedeva i soldi era solerte come quella dei preti della Curia. Gli stessi che serviva ragazzino prima ancora che parlassero e per i quali, ventinovenne, era evoluto da garzone a spia dei francesi nella Roma di Garibaldi. Non era affatto un venale, ma piuttosto aveva inteso che i sederi delle puttane che scrutava in gioventù pei cardinali, le lettere, le smorfie d' odio che carpiva in un viso erano la segreta materia del denaro. Dunque era leale ai gesuiti ma anche alle Logge, giacché le diversità di idee o di partito gli parevano del tutto insignificanti. Seduto con la sciarpa nera sulle gambe, davanti alla dama o all' appaltatore che contorto dai complimenti falsi chiedeva denaro, lui vedeva cosa erano i soldi: il comando richiesto dalla vanità universale. Potere che i vizi davano più delle virtù; vanità che circola sempre senza requie. La vanità era il fiume torbido che sfociava nel mare delle scadenze, che lui paterno, dunque avaro, doveva regolare: «Quando mi farò il vestito nuovo io, allora ripareremo i salotti». Anche perciò aggiustava volentieri i bilanci. Cos' erano l' avarizia dei numeri e le somme, rispetto alla vanità umana? Col cassiere della Banca Romana e il figlio, firmava in cantina banconote doppie. Ma non bastavano a colmare il buco di cassa iperbolico, 28 milioni di lire, che il suo istituto, ancora tra le banche d' emissione del Regno, aveva accumulato. Era però in quei giorni sereno: la vecchia indagine sui conti della banca era finita nel niente; e Giolitti, per i favori che il Sor Bernà aveva fatto a re Umberto e alle sue amanti, l' aveva quasi nominato senatore. Si sentiva protetto dal fatto che quasi non c' era un nome in vista che non fosse coinvolto. Tanto che neppure si curava che prima di Natale in Parlamento s' erano date prove pubbliche dei falsi in bilancio della Banca Romana. Così, quando alle sette del 19 gennaio 1893 l' intendente di pubblica sicurezza arrivò per arrestarlo, ne fu stralunato. Ma chiamò una carrozza; come sempre contrattò un po' il prezzo col cocchiere; ieratico fece dirigere verso Regina Coeli. Pareva che fosse lui ad accompagnare in carcere i gendarmi. Anche perché la plebe della Suburra plaudì al suo passaggio, ricevendone in cambio sorrisi bonari e dei sigari. Il Corriere della Sera ne diede notizia con settentrionale sobrietà, come anche scrisse del banchiere Cuciniello arrestato, mentre vestito da prete con due milioni e mezzo, scappava da casa dell' amante. O del vecchio direttore del Banco di Sicilia assassinato a coltellate per mancanza di rispetto alla mafia. Il tutto mentre, odiandosi l' un l' altro, Crispi e Giolitti si davano in Parlamento a turno la colpa di aver saputo e non detto. Parve palese a tutti gli onesti che Roma fosse la cova d' ogni marciume: delle speculazioni edili e degli scandali bancari. I plichi di lettere e ricevute, di cui si nutriva in ricatto reciproco la politica italiana, temiamo non solo allora, erano del resto il mare ideale in cui Tanlongo sapeva navigare. E il Corriere in una prima pagina memorabile lo ricordò ai lettori. Sotto l' occhiello «un colloquio con Tanlongo prima dell' arresto» riportò il chiaro avvertimento del Sor Bernà: «Se mi si vuole chiamare responsabile di colpe non mie, io sarò costretto a fare uno scandalo... (la faccia di Tanlongo in quel momento erasi accesa». Più che accesa in effetti era rossa. Giacché il nostro soffriva non solo di gotta per eccesso di abbacchi; ma anche di erisipela: malattia infettiva contagiosa per cui la pelle infiammata tende al color porpora. Ma l' Italia è nazione dove ricattato e ricattante si confondono, come mai altrove. Crispi infatti teneva in pugno Tanlongo dal giugno del 1890, ovvero da quando aveva la relazione della Commissione d' inchiesta sui suoi conti. E in fase istruttoria del processo, richiesto sui soldi dati a Giolitti e le carte da lui sequestrate, Tanlongo assecondò Crispi: «Lei non smentisce?». Lui rispose: «Veggo che la verità si fa strada da sé, non ho più ragione di negare: è vero». Ripagato e, scandalo nello scandalo, quindi assolto a fine luglio 1894. Eppure quell' ammissione era il più perfetto scherzo da prete fatto pure a Crispi. Nel plico che Giolitti aveva serbato dai cassetti del banchiere c' erano anche le lettere di Lina Crispi al maggiordomo amante e le tracce dei soldi pretesi da lei e suo marito. Il romanissimo banchiere Bernardo Tanlongo fu il sommo genio, plebeo e pretesco, del ricatto per azione fallace: «E se ben poi fallace la ritrova, pigliar non cessa una ed un' altra nuova». (Ariosto, Orlando Furioso, canto XXXII, XV ottava). 8 febbraio 2004 Alvi Geminello

19/01/2010

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